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Alle fonti della Vivonne - Studio n° 63

  
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La mattina del giorno dopo prometteva una bella giornata; c'era il sole ma non faceva caldo e le poche nuvole bianche erano molto lontane.

Annie mi telefonò alle undici per dirmi che sarebbe passata lei a prendermi, prima di pranzo e non io, come avevamo stabilito il giorno prima. Mi disse ridendo che dopo averci ripensato si era convinta che la mia auto non ce l'avrebbe mai fatta fino alla sorgente. Lasciai correre e tornai allo studio di questa pagina (n° 63). Avevo bisogno di concentrarmi, quella donna mi procurava leggere scosse di agitazione. Forse ne ero attratto.

Annie arrivò dopo circa un'ora in abito da campagna, gonna a fiori, scarpe basse e una splendida camicetta molto scollata che aggiungeva un po' di pepe alla giornata.
La strada per arrivare alla sorgente non era molta, cinque o sei chilometri dal paese. Volle guidare lei e in auto parlammo poco, eravamo imbarazzati e non sapevamo cosa dirci. Ci guardavamo e sorridevamo.

Dopo avere posteggiato l'auto davanti alla chiesetta che introduce alla fonte abbiamo fatto una breve passeggiata per scoprire quanto quei luoghi incantati potevano offrire.
Non molto, devo confessare e Annie si accorse subito della mia delusione:
-Forse non sai che anche Proust quando venne qui per vedere le mitiche sorgenti della Vivonne rimasto parecchio sorpreso: si immaginava un luogo talmente ultraterreno quanto la Porta dell'Inferno mentre in realtà , come vedi, non c'è altro che una specie di lavatoio quadrato dal quale ogni tanto sale qualche bollicina.
E questo ci conferma che la realtà  non è mai come te la aspetti; ma tu questo lo sai già , vero?
Faticavo a seguirla ma ci sorridemmo ancora e di comune accordo iniziammo ad allestire il picnic tradizionale preparato da Annie, con tanto di plaid a quadrettoni, frittata, pomodori, formaggi e l'immancabile bottiglia di Chablis.
Dopo pranzo ci stendemmo sull'erba per goderci il tiepido sole di quella giornata.
Seguirono altri momenti di silenzio imbarazzato finché giunsi alla conclusione che la timidezza è un aspetto piuttosto ridicolo per un uomo della mia età che non ha nulla da perdere e non deve difendere alcuna reputazione.
E allora, pur tra mille indugi e cautele trovai il modo di chiederle qualcosa della sua storia, dal momento che era inutile ripetere la mia, di nipote irrisolto alla ricerca delle sue origini, perché ormai le mie vicende erano sicuramente note non solo a lei ma a tutta Combray, grazie alle generose chiacchiere di Andrée e Albertine.

Così quel giorno ho conosciuto Annie, quando ha voluto raccontarmi la sua storia senza veli, senza pudori, reticenze, omissioni, accordandomi una fiducia che non pensavo di meritare e lo penso ancora, mentre sto per pubblicare la sinossi di una vita che lei mi ha confidato in un momento molto intimo perché sicura della mia discrezione.
Probabilmente sono un tipaccio, ed è per questo che continuo a scrivere musica, per dimenticarmene.

E' a Lei che dedico lo studio n° 64 che accompagna queste pagine.


Annie non nacque a Combray ma in un altro paese, distante un centinaio di chilometri, Giverny, dal quale arrivò poco più che ventenne per aiutare la sorella vedova, una donna maltrattata dalla vita e che per via di un esaurimento mal curato stava andando fuori di testa e non era più in grado di garantire sostentamento e sicurezza al suo unico figlio ancora piccolo. Annie dovette dire addio al suo innamorato di Giverny, al quale era legata da un amore tenero, appassionato e ricambiato. Così vanno le cose della vita, mi disse per riassumere e chiudere a ogni descrizione di quel dolore che ancora la consumava.

Al suo arrivo fu accolta con grande calore e benevolenza dagli abitanti del paese. I motivi di quell'accoglienza così calorosa potevano essere noti solo a chi ricordava ancora cosa era successo molti anni prima, quando era arrivata la prima sorella , che dopo essersi sposata con un giovanotto del luogo si era trasferita a Combray con l'idea di rimanerci per sempre.

Jeanne, cosi si chiamava la sorella di Annie, dal suo arrivo venne trattata con sospetto, come una straniera. L'idea inespressa ma generale era che quella donna fosse venuta a rubarsi un buon partito, che spettava invece di diritto alla vasta comunità di cui lui faceva parte.

Jeanne era smarrita, non si sarebbe mai aspettata di essere accolta im modo tanto ostile.
Grazie a mille racconti che si ripetevano in casa, aveva coltivato dall'infanzia, un'immagine di tenerezza e calore di quel paesino fantastico da cui proveniva tutta la sua famiglia.
I Dubois, di cui Annie era l'ultima nipote, abitavano Combray da tempi remoti finché al bisnonno, un basso funzionario statale, fu imposto il trasferito a Giverny per motivi di sevizio.

Jeanne ricordava bene quelle storie e decise di reagire all' ostilità mai dichiarata ma innegabile che covava in tutto il paese, mettendosi alla ricerca di qualsiasi documento ufficiale utile a dimostrare che le sue origini risalivano a Combray.

Avrebbe umiliato con i loro stessi argomenti la banda di maligni che dal suo arrivo la additavano come cacciatrice di mariti benestanti, profittatrice e intrusa. Gli stessi che in seguito Annie considerò come gli elementi patogeni che avviarono il processo verso la deriva mentale della sorella.

Jeanne si mise a frugare tutti i vecchi archivi del comune e della chiesa e un caso fortunatissimo la portò a trovare documenti che dimostravano addirittura alti gradi di parentela tra la sua famiglia e quella di Françoise, la governante di casa Proust.
Risultava essere una lontana prozia acquisita, ma il legame di parentela era sicuro e certificato.

In quel periodo Combray si era affermata una sorta di organizzazione paranobiliare alla quale potevano accedere solo i veri discendenti dei personaggi ritratti nella Recherche.
In quel Gotha da manicomio che si erano inventati, la discendenza delle sorelle Dubois attestava senza possibilità di obiezione un alto grado di nobiltà  di sangue.

Quelli erano tempi d'oro per Combray.
Senza alcun preavviso si era risvegliato da più parti una grande attenzione per l'opera di Proust.
Riviste letterarie, convegni, commemorazioni, articoli di terza pagina, tutto riportava a Combray.
Il paese era invaso da pellegrini proustiani e gli affari andavano a gonfie vele per tutti.

Fu allora che Annie, ancora molto giovane e piena di illusioni, decise di fare la sua mossa, quella di monetizzare sfacciatamente il grado di parentela con la sua antenata illustre.
Grazie ai permessi facili e al credito generale che il blasone della famiglia Dubois le garantiva, Annie aprì un ristorante il cui piatto del giorno sarebbe rimasto senza alterazioni il famoso stufato di bue, erbe e vino rosso di cui Norpois esaltò la delicatezza, che sarebbe stato cucinato secondo la ricetta autentica della stessa Françoise , tramandata verbalmente nel corso di diverse generazioni.

Per il nome del ristorante Annie decise di puntare su uno stile descrittivo, "Qui lo stufato di Françoise" e all'inaugurazione erano presenti tutti i notabili del paese che benedicevano quella sana iniziativa imprenditoriale perché ampliava l'offerta di un'economia che si consacrava al ricordo del suo più illustre villeggiante.
A questi poi si aggiunsero si aggiunsero a sorpresa un lontano parente di Albert Bloch che nessuno aspettava e una bionda vestita da Marilyn Monroe che si qualificava orgogliosamente come diretta discendente della figlia di Vinteuil senza chiarire i termini di quella discendenza.

L'inaugurazione fu comunque un grande successo e a questa seguirono alcune settimane di buoni affari, la gente era curiosa e il ristorante era sempre pieno di paesani e pellegrini.
Ma dopo meno di un mese le sale iniziarono a svuotarsi e due mesi dopo l'apertura, il "Qui lo stufato di Françoise" era un ristorante dove non andava più nessuno.

Il disastro commerciale fu digerito da Annie con la facile spiegazione che la stragrande maggioranza dei pellegrini e più in generale dei devoti proustiani è statisticamente vegetariana e quindi aprire un ristorante per quella platea e offrire un menù interamente strutturato su carne vaccina cucinata in poche varianti, non poteva che essere un suicidio imprenditoriale.

Questo Annie me lo disse sorridendo, con ironia per poi aggiungere che lei comunque si sentiva tranquilla perché l'unicità delle circostanze e la conseguente impossibilità di formulare previsioni attendibili la scaricavano di qualsiasi colpa manageriale.

Continuava a sorridere e mi fu chiaro che a lei del "Qui lo stufato di Françoise" e di tutta la sua avventura imprenditoriale non era mai fregato niente. Annie voleva dipingere.

Quando era piccola, girava per casa un grosso volume sui pittori francesi che lei sfogliava spesso, attratta soprattutto dalle atmosfere che Monet sapeva fissare sulla tela.
Conosceva bene quei paesaggi perché li abitava ma per la prima volta li vedeva illuminati diversamente che dal solito. Iniziò anche lei a dipingere stagni e ninfee e con il passare del tempo si accorse che le ore passate tra colori e pennelli erano l'unica parte della giornata di cui veramente le importava.

Così dopo il fallimento del ristorante tornò alle sue tele, mentre in paese la sua reputazione crollava rovinosamente.
Iniziarono a girare pettegolezzi velenosi sul rapporto poco charo tra Annie e il suo giovane nipote, che viveva da lei da quando la madre , la sorella di Annie, era stata ricoverata in un Istituto di salute mentale.
In paese si diceva che i due se la intendevano e Annie non fece mai nulla per smentire quelle voci. Continuò a dipingere le sue ninfee incurante del vuoto che le si faceva intorno.
Finché il bel ragazzone, che ormai si era trasformato in uomo non resse alla pressione puritana che tutto il paese esercitava su quella coppia male assortita e chiese alla zia di trasferirsi in una vecchia casa sfitta di cui Annie era proprietaria (quella sul viale che porta alla stazione, dove adesso abito io).

Solo questo poteva far crollare Annie che iniziò a sentirsi vecchia, abbandonata, rifiutata da tutti, sola.

(A questo punto della storia ricordo di essermi stupito davvero per sua franchezza e per risultare così meritevole della sua fiducia. Ero affascinato dalla naturalezza con cui mi confidava di punto in bianco le sue vicende più intime. Io ci avrei messo un anno, pensai un po' invidioso).

Il giovane nipote visse in quella casa per alcuni mesi e dopo aver devastato buona parte dell'abitazione a causa della sua incuria malsana e per l'abitudine di trasformare quel luogo in un bivacco di gente poco raccomandabile del posto, partì per Chartres senza salutare nessuno e rendendosi da subito irreperibile per tutti.

Annie non solo apprezzava le carni di quel giovane uomo ma gli era davvero affezionata: lo aveva in buona parte cresciuto lei perché la sorella era troppo invalida per potersene occupare.
Quindi la scomparsa del nipotino coniugata con l'abbandono del giovane amante la precipitarono in uno stato di prostrazione malinconica che nell'arco di pochi mesi evolse in disperata. Più ci pensava, più si sentiva vecchia, sola, oltraggiata, rifiutata e mi confessò che visse un lungo periodo di sofferenza e rimpianti.

La disperazione e la solitudine la portarono ad avvicinarsi a Andrée e Albertine, anche loro in qualche modo reiette e condannate per il loro amore, al biasimo e all'isolamento.
Non si erano mai frequentate, anche se si conoscevano, finché Annie si decise e portò nel loro negozio di souvenir alcuni suoi quadri di ponticelli e stagni, per chiedere se avevano un po' di posto per poterli esporre.
Era la disperazione a portarla in quel negozio, non certo per un desiderio di maggior visibilità artistica.
Quello che in quel momento Annie elemosinava era un contatto umano.

Dal momento in cui si presentò in negozio, Andrée e Albertine capirono che Annie aveva bisogno d'aiuto. La accolsero subito in modo caloroso e alla fine furono proprio loro a salvarla da uno stato di depressione permanente e dagli esiti incerti.
La coinvolsero nella loro attività commerciale pensando di aprire un'ala del loro grande magazzino dedicata a pitture di un epoca taroccata e le ordinarono subito una decina di tele con il giardino Precattelan come tema centrale, l'accolsero in negozio ogni giorno con gioia, per fare quattro chiacchiere e tenersi compagnia, stabilirono che ogni giovedì avrebbero cenato insieme dalle Due Sorelle, le insegnarono a farsi le canne e a sbattersene di tutti e del passato.
Così Annie tornò a vivere.

-Finché non sei arrivato tu.

Terminò la sua storia con questa frase che mi coinvolgeva in modo implicito ma allarmante. Io non desideravo essere coinvolto; avevo mille altri diavoli per la testa e non avevo nessuna intenzione di impegnarmi in una relazione sentimentale.
-Tranquillo, non ho nessuna intenzione di impegnarmi in una relazione sentimentale.
In quel momento compresi che Annie poteva leggermi nella mente e ancora una volta ne rimasi affascinato.
-Comunque se vieni a cena da me questa sera, posso farti assaggiare il mio famoso stufato alla Françoise.

Naturalmente ci andai. Ma non so se ho fatto bene.

 

  
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